Messico, rotolando verso sud – Il Reportage

27 Novembre 07:00 2024 Stampa questo articolo

«Quiere un cafè?». È sulla ventina e ha il sorriso largo. È davanti a me, stretta in un grembiule nero, nella lounge di Madrid mentre aspetto il volo per Fiumicino. Mi avrà vista stanca, penso, mentre la ringrazio e annuisco. Sono passate 24 ore da quando ho lasciato Los Cabos, nella Bassa California del Sud. In poco più di una settimana ho preso sei aerei, un treno, tre barche, viaggiato diverse ore in jeep e van. E non mi sono mai sentita così libera, piena, viva e felice. Tutta “colpa” del Messico.

Il tour – organizzato dalla Commissione Turismo della Camera di Commercio CaMexItal, guidata da Massimo Ariello, e dal Consolato del Messico di Milano – ci porta nel cuore di questo enorme Paese, per molti ancora sconosciuto. Un luogo resiliente e per certi versi fuori dal tempo, magico e ricco di storia, profumato di salsa piccante e tequila.

TERRA DI RESISTENZA

All’arrivo Città del Messico ci accoglie con i suoi 30 gradi. Il tempo ideale per fare un giro nel centro storico, tra il Zocalo e il Palazzo delle Belle Arti, e volare in mongolfiera sulle piramidi del sito archeologico azteco di Teotihuacán. È giusto un assaggio della capitale. Il giorno dopo siamo già in viaggio verso Chihuaua, centro nevralgico dell’omonimo Stato, il più esteso di tutta la Federazione. Due ore di volo ci catapultano in una tranquilla e assonnata città coloniale, con l’imponente Cattedrale barocca piena di fedeli e il Palazzo del governatore che ricorda che proprio qui Pancho Villa, il leggendario leader rivoluzionario, lottava contro i proprietari terrieri per difendere i diritti dei più deboli.

Ma è uscendo dalla città che scopriamo la vera anima di Chihuahua, “luogo arido e sabbioso” in lingua raramuri. Terra dura, questa; semi desertica, priva di acqua, che non regala niente. Eppure qui più di cento anni fa si trasferì la comunità mennonita, che oggi conta 35mila abitanti. «Quando ero giovane non avevamo auto o trattori, potevamo contare solo sulla nostra forza e i nostri cavalli – racconta Abraham Peters, 82 anni e otto figli, tutti residenti a Cuauthemoc – Oggi molte cose sono cambiate, usiamo perfino i cellulari, ma lavoriamo nei campi con abiti tradizionali, rispettiamo le regole della nostra religione e onoriamo la famiglia».

PIEDI LEGGERI E ADRENALINA

Le tradizioni. Usi e costumi. Forse anacronistici per il mondo lì fuori, così importanti per chi in questo angolo di terra senza tempo ci vive. Resistono anche tra i raramuri, i “piedi leggeri”, la comunità indigena che da oltre mille anni ha scelto la natura come casa. Li incontriamo nel tragitto verso Creel, un piccolo villaggio a circa 2.400 metri di altitudine nella Sierra Tarahumara. Un posto da fiaba con case in pietra, tetti in legno, enormi camini. La strada è un serpente che si snoda tra paesaggi mozzafiato: le staccionate dei ranch, i cavalli al pascolo, prima roccia e sabbia, poi l’esplosione di foreste di pini e canyon. La polvere del Messico si mescola all’aroma balsamico.

I raramuri hanno la loro lingua, le donne indossano ampie gonne colorate, le famiglie vivono in baracche sugli altipiani della Sierra, nelle cavità sotto le montagne o ricavate nelle rocce granitiche, come quelle della Valle dei Monaci. Ma soprattutto corrono. Più di chiunque altro. A piedi nudi o con dei semplici sandali di cuoio. Su e giù per i dirupi, saltando di roccia in roccia, arrampicandosi sui sentieri della Barrancas del Cobre, letteralmente canyon di rame, un sistema montuoso tre volte più grande del Grand Canyon dell’Arizona. È questo il loro universo. Per scoprirlo da vicino ci fermiamo al Parco Avventura nel cuore della riserva. La struttura offre diverse attività: il bosco aereo con 12 ponti sospesi tra gli alberi a otto metri di altezza; la strada ferrata, per cimentarsi in un’arrampicata nel vuoto del canyon, ponti tibetani e sette zipline, il viaggio in funivia per ammirare gole profonde oltre 1.800 metri, ma soprattutto la zipline, la più lunga del mondo, che sfreccia a 130 km/h per 2.554 metri, in soli tre lunghissimi minuti.

«A breve apriremo anche uno spazio per i bambini con un “salta-salta” alto quanto un pa- lazzo di cinque piani – informa Sergio Almada, direttore del parco – Ad oggi accogliamo 140mila visitatori l’anno, ma contiamo di crescere». Affrontiamo la zipline, scivoliamo nel vuoto mentre il vento ci sferza il viso. L’inizio è pura paura, ma l’abisso del canyon messicano e il fiume che scorre di sotto sono un quadro che non dimenticheremo mai. Un urlo, con tutto il fiato che abbiamo in corpo, libera corpo e anima.

VERSO LA CASA DI ZORRO

L’ultimo tratto che ci porta verso il Pacifico è a bordo di un treno, il leggendario Chepe Express che due volte a settimana collega il centro di Creel a Los Mochis, nella regione di Sinaloa. Il suo nome sta per “da Chihuhua al Pacifico”, attraversa le meraviglie della Sierra Madre, superando 39 ponti e 86 tunnel. A ogni curva le valli si allargano sotto il sole, i villaggi prendono forma, i fiumi scintillano, il fischio del treno si confonde con il rumore delle rotaie. La prima classe ha poltrone in pelle e consente di accedere al carro de terrazza, l’unico con ampie finestre aperte dove sorseggiare un margarita in attesa del pranzo, servito a bordo.

In uno dei tunnel sotto la montagna il Chepe sferraglia affrontando una curva di 180 gradi mentre subito dopo sfida un ponte a ferro di cavallo, lungo fino a 237 metri. Dopo cinque ore di viaggio, dalla stazione Divisadero arriviamo a El Fuerte, un paesino colorato dove la leggenda narra sia nato, nel 1795, Don Diego de La Vega, in arte Zorro. La città con le strade acciottolate e l’architettura coloniale evoca l’atmosfera dell’eroe mascherato, ma soprattutto nel centro storico c’è l’hotel Posada dell’Hidalgo, leggendaria casa di Zorro.

TRA LEONI MARINI E CORALLI

È tempo di lasciare Sinaloa e volare verso la Baja California del Sud. Arrivati a La Paz, il calore del sole ci avvolge. La vita scorre lenta in questa città affacciata su una enorme baia sul Mar di Cortez. L’atmosfera è ovattata, priva di inutile fretta, le acque sono turchesi, sabbia finissima. Facciamo colazione con tacos a base di pesce e partiamo in barca verso l’isola di Espiritu Santo, protetta dall’Unesco per la sua biosfera. Qui ci aspetta la prima incredibile avventura: una nuotata alla Lupera tra i leoni marini. Indossiamo pinne e ma- schera con un po’ di apprensione.

Il coro di benvenuto di questi animali selvaggi sembrava più un grido di guerra. Ci tuffiamo e basta poco per venire rapiti dallo spettacolo dei fondali, circondati da banchi di pesci coloratissimi e dai musi curiosi dei cuccioli che giocano a fare il morto a galla. Vederli così da vicino, nel loro habitat naturale, è davvero speciale. In barca raggiungiamo anche la baia dell’Ensenada grande, una delle più belle spiagge al mondo, e la riva della Balandra, una sorta di piscina naturale con il fondale basso e le acque cristalline. L’accesso è a numero chiuso, massimo 450 persone divise in due turni di 4 ore: dalle 8 alle 12 e dalle 13 alle 17. La domenica invece è off limits perché riservata ai locali.

ROTOLANDO VERSO SUD

Rotoliamo verso sud alla scoperta de Los Cabos. Tocchiamo prima Todo Santos, con i suoi negozi di artigianato e il leggendario Hotel California, anche se gli Eagles hanno smentito che questo sia il lovely place che ha ispirato il loro successo. Subito dopo, al ristorante El Faro con vista sull’Oceano, osserviamo la migrazione delle balene per poi goderci il tramonto all’Arco di Cabo San Lucas a bordo di un catamarano.

L’ultima tappa del viaggio è Cabo Pulmo, il parco marino regno di Jacques Costeau. “Welcome to my office”, afferma Emilio, la nostra guida, mentre attraversiamo la selva di cactus. «È una scorciatoia», dice accelerando tra nuvole di sabbia. Dopo una gimkana di due ore arriviamo alla playa dell’Arbolito. Indossiamo maschera e boccaglio e “danziamo” con i pesci colorati. Lì, sott’acqua, ritrovo la pace e mi sento un po’ messicana anche io. Riesco perfino a sopportare il piccante. «Il Messico è il luogo dove si comincia a capire qualcosa quando si rinuncia a capire», secondo Pino Cacucci. E forse è davvero così.

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Serena Martucci
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