La pericolosa tentazione di dire “Go Home”
Se incidentalmente sono finita a fare la giornalista di travel, meno casualmente sono amalfitana. Nel senso che io nella iperturistica e blasonata Amalfi Coast – con una casa giusto dirimpetto al Duomo – ci ho vissuto fino alla maturità. Questo per dire che, vuoi o non vuoi, esperto di turismo ci nasci da quelle parti. O forse esperto non è la parola giusta. A gennaio, con bar e ristoranti serrati, sei senza dubbio voglioso di turismo. Tra aprile e maggio, che partono i contratti stagionali, diventi lavoratore di turismo. A fine luglio, che per comprare il latte fai a cazzotti e la spiaggia è un formicaio, entri nella categoria stufo di turismo. Con il concreto rischio, a settembre, di ritrovarti morto di turismo. E amen.
Fatta la premessa, veniamo alla cronaca. Al porto di Amalfi, intorno alle 17 di domenica scorsa, erano in partenza imbarcazioni dirette a Salerno per un totale di 1.200 passeggeri. Numero nettissimo. Che non considera le altre fasce orarie, i pernottamenti, né chi – ardimentoso – sceglie il trasporto su gomma sprezzante del traffico e delle curve. Se si calcola che il Comune conta all’incirca 5mila abitanti, con una concentrazione delle attività del paese in meno di un chilometro quadrato, si può dire che Amalfi raddoppia (se non triplica) giornalmente il numero di persone che la animano, in uno spazio talmente ristretto da renderla per certi versi invivibile.
Fatta la cronaca, veniamo al commento. Di pancia comprendo chi, mosso dall’impeto, lancia il Tourist Go Home o pensa al numero chiuso. Lo capisco perché, quando sei seduto su quella scalinata che hai sempre considerato “tua” e qualcuno grida «spostati che devo fare una foto», la voglia di mandarlo a quel paese (che si colloca a svariati chilometri di distanza dal tuo) è irrefrenabile. Lo comprendo per quel senso di violazione che ti attanaglia quando la voluminosa signora in bikini ostenta un secchiello con le stelle marine. Perché chi è di Amalfi lo sa bene: le stelle marine sono un miracolo e non si toccano. Così come il mare non si sporca, il Vip in vacanza si rispetta nella sua privacy, la chiesa per quanto monumentale resta sacra, il negoziante è una specie protetta: nella boutique si entra civilmente, non si irrompe come Unni.
Detto ciò, guai a fare troppo gli schizzinosi. Il turismo – passi la retorica – è il nostro pane. Quello di massa, con le sue distorsioni mordi e fuggi, è un’esigenza legittima di chi non ha a disposizione grossi budget. Breve digressione: quella famosa domenica, con la carica dei 1.200 sul porto, mentre in traghetto storcevo il naso di fronte a una comitiva rumorosa con il capogruppo che impugnava l’asta con la farfalla di gommapiuma, il marinaio di turno mi disse che «sì, tutte i weekend è così», che «sono famiglie di Puglia e Calabria che trascorrono in Costiera una giornata diversa». Ho provato tenerezza per quella giornata diversa. Per la nonna con i due nipoti che si è fregata il posto, li ho immaginati il giorno prima eccitatissimi all’idea di visitare Amalfi. E i racconti che ne avrebbero fatto di questa mini-vacanza che, per qualcuno è normalità, per altri un breve sogno che si realizza.
No, il numero chiuso (nonostante tutto) non mi trova d’accordo. E su questo convengo con il ministro Franceschini. Viaggiare è un diritto, Amalfi non è affatto mia. Alle amministrazioni e ai governi il compito di rendere la bellezza il più possibile vivibile e sostenibile, potenziando infrastrutture e servizi. Imponendo decaloghi di buone pratiche, pena qualche piccola ammenda magari. Evitando che la scrematura la facciano solo i prezzi, gonfiati a dismisura, in certi casi ai limiti della frode.