La Quaresima è finita. Mercoledì 23 ottobre, 40 giorni dopo l’inizio del maxi sciopero di Boeing, i 33.000 dipendenti voteranno l’intesa di massima raggiunta tra l’azienda e l’International Association of Machinists and Aerospace Workers: un aumento del 35% degli stipendi distribuito su quattro anni, un bonus una tantum di 7.000 dollari e maggiori contributi ai loro conti pensionistici. Decisivo l’intervento della segretaria del lavoro statunitense, Julie Su.
Con un annuncio in un post su X il sindacato ha annunciato ai lavoratori di aver ricevuto una “proposta negoziata degna della vostra considerazione“. Gli aderenti, quindi, decideranno fra due giorni se porre fine allo sciopero ratificando il contratto. Il sospirato sì metterebbe fine alla lunga mobilitazione, la prima da 16 anni a questa parte, che ha paralizzato il colosso aerospaziale americano, aggravando la crisi economica del gruppo, figlia di un anno nero e certificata dalle fosche previsioni delle agenzie di rating.
L’accordo – potenziale, meglio precisarlo, alla luce dei tentativi di intesa precedenti andati a vuoto – arriva dopo che l’amministratore delegato di Boeing, Kelly Ortberg, ha minacciato il taglio di 17.000 posti di lavoro e prospettato un ritardo nella prima consegna del jet 777X, nel tentativo di arginare le perdite. Gli analisti della Bank of America stimano che lo sciopero stia costando alla società 50 milioni di dollari al giorno con lo stop alla produzione degli aerei più venduti, il 767 e il 777.
A imprimere una svolta decisiva nelle trattative anche pressioni politiche. Alcuni esponenti del Partito democratico dello stato di Washington, dove Boeing ha la sede centrale, hanno sollecitato azienda e sindacato a trovare una soluzione rapida che riconosca, hanno scritto in una lettera, “il valore della forza lavoro dei meccanici per il futuro di Boeing”. Tempo 48 ore e sapremo se sul braccio di ferro calerà davvero il sipario.