Era scritto così: doveva accadere proprio nell’Election day. In attesa di sapere chi fra Trump e Harris andrà alla Casa Bianca, dopo oltre 50 giorni si chiude il maxi sciopero di Boeing. I 33.000 dipendenti che avevano incrociato le braccia il 13 settembre – tra operai e macchinisti impegnati nella produzione del 737 Max, l’aereo più venduto di Boeing, e dei 767 e 777 – hanno accettato la terza proposta di accordo contrattuale ponendo così fine alla mobilitazione, costata all’azienda e ai suoi fornitori più di dieci miliardi di dollari.
Dopo aver respinto due offerte, l’Associazione internazionale dei macchinisti e dei lavoratori aerospaziali (Iam) ha spiegato di aver approvato con il 59% dei voti l’intesa, che prevede un aumento salariale molto vicino alle richieste iniziali (che si aggiravano sul 40%), ma non il ripristino del vecchio regime pensionistico.
Il nuovo contratto include dunque un incremento di stipendio del 38%, un bonus di firma da 12.000 dollari e disposizioni per aumentare i contributi del datore di lavoro in riferimento a un piano pensionistico, oltre a contenere i costi dell’assistenza sanitaria.
«È una vittoria per i lavoratori che erano determinati a recuperare più di un decennio di salari stagnanti – l’annuncio in conferenza stampa di Jon Holden, capo del sindacato di Seattle – Ora è nostro compito tornare al lavoro e iniziare a costruire gli aerei e riportare questa azienda al successo finanziario».
Boeing così può respirare e guardare avanti, come auspicato dal ceo Robert “Kelly” Ortberg. Per tamponare le perdite causate dallo sciopero l’azienda era stata obbligata a fare ricorso al mercato con una raccolta di fondi da 21 miliardi di dollari per evitare il declassamento del rating a junk, spazzatura.
Lo sciopero e il rallentamento della produzione degli aerei, inoltre, hanno pesato anche sulle compagnie aeree, costringendole a rivedere i loro piani di crescita proprio per la mancanza di velivoli.
Alla fine di un 2024 a tinte fosche mancano meno di due mesi: Boeing incrocia le dita.