Aumento del numero delle spiagge in concessione, attraverso un inevitabile taglio per le spiagge libere, e via libera ai bandi di gara di quelle già in gestione, con un contestuale riconoscimento di un indennizzo ai vecchi gestori che documenteranno gli investimenti fatti in questi anni, Ecco la proposta – secondo le indiscrezioni di palazzo – che la premier Giorgia Meloni sta studiando e che, dopo un passaggio condiviso con i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini, intende presentare alla Commissione Ue entro il prossimo 16 gennaio per scongiurare la procedura d’infrazione.
L’impegno preso in conferenza stampa e soprattutto la lettera del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, hanno impresso un’accelerazione decisiva per la vicenda che si protrae da mesi, con un esecutivo tenuto sotto pressione dalle lobby dei balneari che, infatti, a poche ore dalle dichiarazioni della Meloni hanno subito colto l’occasione per ribadire l’urgenza di un personale intervento della premier. A partire da Assobalneari, che ha richiesto esplicitamente che sia la stessa Meloni a guidare la trattativa con l’Ue. C’è poi Antonio Capacchione, presidente del Sindacato Italiano Balneari Sib, aderente a Fipe/Confcommercio ha sottolineato come sia ormai «indispensabile una discussione seria e non strumentale sulle problematiche degli imprenditori balneari italiani. Basterebbe vedere chi all’epoca aveva responsabilità di governo per scoprire tutta la strumentalità del dibattito politico degli ultimi anni. La questione balneare non è sorta adesso, ma nel 2009: da allora si sono succeduti otto governi di ogni schieramento politico. Tutti hanno prorogato la durata delle concessioni e nessuno ha messo mano alla riforma dei canoni demaniali. Nessun politico può ergersi a giudice».
Ma a proposito dei politici c’è da annotare il durissimo commento del senatore Marco Croatti (M5S), capogruppo alla Commissione finanze, che osserva: «Si vorrebbero difendere gli interessi di pochi e sostenere privilegi feudali a discapito degli interessi generali. E sapete come il governo Meloni ha inteso rispondere alle sollecitazioni del Capo dello Stato? Con la decisione, presa pochi giorni fa dal ministro Matteo ‘Papeete’ Salvini, di un taglio del 4,5% dei già ridicoli canoni demaniali annuali pagati dai concessionari. Questo significa che l’importo minimo scende a 3.225 euro, cioè quello che pagherà la maggior parte dei chioschi-bar-ristoranti che fanno affari d’oro sulle nostre spiagge. Un insulto verso i cittadini e verso tutti i piccoli imprenditori e commercianti che non hanno attività sull’arenile e devono affrontare costi e affitti molto più elevati».
«Secondo l’ultimo rapporto della Corte dei Conti – attacca ancora Croatti – lo Stato ha incassato nel 2020 appena 92,5 milioni da 12.166 concessioni, per una media di 7.603 euro a canone, contro un fatturato medio per ogni stabilimento, stimato da Nomisma, in 260mila euro. I concessionari pagano spiccioli allo Stato a fronte di incassi mediamente elevatissimi. Con esempi emblematici di alcuni esclusivi stabilimenti balneari di proprietà di amici del governo che fatturano molti milioni di euro. È accettabile una situazione del genere? È tollerabile questo modo di governare nell’interesse di pochi a discapito dell’interesse della collettività? Il governo continua a nascondere la testa sotto la sabbia disinteressandosi dei gravi pericoli che il comparto e il Paese corrono. Presto arriveranno i conti da pagare per questo atteggiamento e in questo caso, però, a pagare saranno tutti i cittadini».
Ma, al di là delle prese di posizione di associazioni di categoria e politici, c’è un timing da rispettare e, soprattutto, l’esigenza di avere un approccio realistico sull’intera vicenda: appare infatti difficile aprire ora, a pochi giorni dalla scadenza dei termini, una trattativa con la Commissione Ue, che da anni richiede l’applicazione dalla Direttiva Bolkestein, disattesa con sotterfugi e rinvii che hanno sicuramente mal disposto la Commissione stessa.
Infatti negli ultimi mesi l’intera vicenda si è ingarbugliata con le Regioni che procedono in ordine sparso nella fissazione dei bandi di gara, con i Comuni che rivendicano competenze territoriali e con una ondata di ricorsi e pronunce del Tar, che ormai rendono impraticabile qualsiasi mediazione. Un corto circuito che non può essere sfuggito a Bruxelles.