Covid-19, nodo responsabilità: la vera incognita del travel
La responsabilità. È questo uno dei temi più caldi del momento – in attesa della riapertura estiva – riguardo la diffusione del contagio da Covid-19 con le strutture ricettive su cui grava il dovere di protezione verso la propria clientela, secondo gli articoli 1175 e 1375 del codice civile, in materia di correttezza e buona fede contrattuale. «L’albergatore, come anche il villagista, ha quindi l’obbligo di garantire l’igiene, la sanità, la sorveglianza e la sicurezza, secondo quanto stabilito dalle normative vigenti», ci spiega il legale Camilla Monese.
La questione è assai complessa, e i profili da considerare sono tanti, senza dimenticare, però, «che il cliente che prenota è comunque consapevole della pandemia in corso – prosegue Monese – L’ospite che sostiene di aver contratto il virus presso la struttura ricettiva potrebbe far valere la responsabilità contrattuale e in questo caso dovrà dimostrare l’esistenza del contratto, mentre la struttura dovrà provare che il contagio sia stato causato da un fattore a essa non imputabile. Ritengo più plausibile che il cliente possa invocare una responsabilità extracontrattuale e allora dovrà provare sia il danno sia il nesso causale. Ossia che il contagio e la malattia siano stati causati dalla struttura perché ad esempio il gestore è stato negligente o imprudente nell’osservare le regole di condotta e le misure di sicurezza prescritte dalle norme e dai protocolli applicabili (e ancora attesi, ndr)».
Si tratta di una prova difficile, che in giudizio dovrà essere supportata da consulenze tecniche che avranno un valore determinante. «I giudici d’altro canto potrebbero ritenere sufficiente la dimostrazione della sussistenza di un rapporto di mera probabilità scientifica del nesso causale tra condotta e danno – prosegue il legale – Se il proprietario dell’albergo o del villaggio non ha adottato le misure di sicurezza specificatamente previste potrebbero considerare il danno da contagio conseguenza probabile e quindi risarcibile. Resta anche da capire come si muoveranno le compagnie di assicurazione in merito alla copertura del rischio tramite le polizze Rc esistenti».
LA POSIZIONE DEI T.O. «Un’organizzazione turistica come la nostra – dichiara Massimo Broccoli, direttore commerciale di Veratour – deve essere assolutamente rispettosa delle indicazioni che arrivano dalle istituzioni sanitarie competenti e quindi siamo favorevoli ad adottare i protocolli che ci verranno indicati per potere operare nella massima tutela della salute dei nostri ospiti ma anche dei nostri collaboratori».
Broccoli, infatti, trova inaccettabile l’ipotesi «che possa gravare sulle aziende il rischio di procedimenti penali nella malaugurata ipotesi che un ospite possa indicare la sua permanenza in una nostra struttura, come l’elemento determinante nell’avere contratto una malattia come questa. Ribadiamo che adotteremo tutti i criteri di sanificazione che verranno ritenuti idonei dalle autorità sanitarie e siamo, ovviamente, disponibili a ricevere qualsiasi ispezione per verificare che si sia fatto un lavoro coerente con tali misure. Ma dobbiamo essere esentati dall’eventualità di procedure sul penale».
Sulla stessa linea anche il direttore commerciale di Ota Viaggi, Massimo Diana: «È impensabile che le aziende possano aprire le proprie strutture con la possibilità che un dipendente, contraendo il Covid-19 al lavoro, possa citare in giudizio, con causa penale, la propria azienda (dl cura Italia). Questo aspetto si aggiunge a una situazione già complicata di per sé, e ogni giorno che passa la possibilità di salvare la stagione estiva, per quanto possibile, si fa più difficile».
Lato cliente, Diana sostiene che l’ospite, in caso di contrazione del virus, «farà difficoltà a provarlo specificatamente, e questo aspetto ci preoccupa in modo relativo».
Infine, interviene Gaetano Stea, alla guida della divisione prodotto del Gruppo Nicolaus, secondo il quale «dimostrare la responsabilità nei confronti del cliente nel caso in cui venga diagnosticato il virus è molto difficile», perché come anticipato dall’avvocato Monese bisogna andare a «stabilire il nesso di casualità». Questo, «sempre al netto della conoscenza dei protocolli, che appunto dovrebbero arrivare, e della loro rigidità: vanno assolutamente rispettati alla lettera. E abbiamo già una serie di documenti, vedi quello dell’Oms o le prime linee guida dell’Unione europea, che dettano sostanzialmente l’impianto normativo».
«È chiaro, però, che sulle aziende possano esserci anche conseguenze mediatiche e quindi di livello commerciale, che potrebbero rendere difficile o addirittura impossibile la vendita di una struttura nello specifico – continua Stea – Quanto ai dipendenti, la questione è più complessa e riguarda tutte le imprese turistiche, anche perché in molti casi il collaboratore frequenta la struttura o anche l’ufficio per periodi continuativi. Ragione per cui, la possibilità di contagio e la sua individuazione sono più elevate».
Ma la parola d’ordine, e di questo ogni azienda ne è consapevole, sarà sicurezza, «e appena avremo a disposizione i protocolli e le norme a cui adempiere tutto sarà rispettato, con scrupolo e attenzione, al massimo delle proprie possibilità», conclude il manager.
Sì, sicurezza prima di tutto, che spinge un player come Bluserena a optare delle decisioni drastiche: «Dobbiamo avere la garanzia che l’operatore non può avere alcuna responsabilità penale se rispetta i protocolli certificati – ha sottolineato l’amministratore unico, Silvio Maresca – Se così non sarà, noi non apriremo i nostri villaggi».