È il 1969, la radio passa i Beatles e i Rolling Stones. Carlo ha 25 anni e un unico grande sogno: fare musica. Perciò di sera studia, ma la notte, altro che ragioneria: inforca la chitarra e va a prendersi Roma. Prima con gli Speedman, poi con i Puffi70, le sue band. «Quest’ultima chiamata così perché per acquistare gli strumenti facevamo i buffi», dice. Proprio lui che di buffi, debiti, nella sua carriera poi non ne ha mai fatti. E che a Stefano e Daniele, i suoi figli, ha lasciato un’azienda – parole sue – che funziona come «un orologio svizzero». Parliamo di Veratour, il secondo tour operator per dimensioni e fatturati dopo Alpitour. E di Carlo, capostipite dei Pompili, famiglia che da sola ha scritto una delle pagine più importanti del turismo italiano.
Li incontriamo tutti e tre – The Pompilis (questo il nome della terza band) – in via Tempio del Cielo, alle spalle dell’Eur. Con loro c’è anche Asha, una rhodesian ridgeback di due anni: la canessa di casa che scondizola ieratica tra un Pompili e l’altro. Siamo nella sede di Hosteda, l’ultima creatura di Carlo, società di management alberghiero il cui nome ne racchiude il senso: «Ho sta per hotel, ste per Stefano, da per Daniele. Se in futuro Veratour sarà ceduta, questa resterà la roccaforte di famiglia». La vera eredità ai pronipoti: scrigno di una storia epica di musica e d’amore, prima che di turismo.
Dalla musica al turismo, com’è accaduto?
Jeans skinny, stivaletti alla cavaglia, Carlo indossa i suoi ottant’anni come fossero la metà. È lui a raccontare: «Tutto è iniziato prestissimo. A 19 anni sposai mia moglie Nunzia, che non si chiama Vera come molti credono. L’anno successivo – nel 1964 – nacque Stefano, dopo due Daniele. Di giorno lavoravo con mio padre in un’officina chimica, la sera studiavo ragioneria, il resto del tempo lo trascorrevo a suonare. Prima musica beat, poi rhythm and blues sull’onda di James Brown e Aretha Franklin. Facevamo qualche “serata”, ma tiravamo su poche lire. Così, nel 1969 andai a Madrid per fare gavetta in Viajes Ecuador, operatore specializzato nell’incoming dall’America Latina di proprietà di mio cognato. Una volta rientrato in Italia, dal 1970 al 1976, lavorai per Carrani Tours come rappresentante della società spagnola. Finché non aprimmo Viajes Ecuador Italia, un’azienda a sé».
Prima fu l’incoming, quindi…
(continua Carlo) «Ebbene sì. Feci crescere l’azienda un passo alla volta e, quando i tempi furono maturi, proposi ai miei figli di far parte di questo progetto. Stefano, che già allora aveva una spiccata indole commerciale, entrò a 21 anni; Daniele a 19 si fece le ossa tra amministrazione e contrattazione, visto il suo spirito più riflessivo. Eravamo già strutturati, con una trentina di dipendenti, affidai i ragazzi ai miei migliori collaboratori perché gli insegnassero tutto ciò che era necessario sapere. Ma con loro due (e qui li guarda e sorride paterno) il gioco è stato facile, sono sempre stati bravi, mi creda».
(interviene Daniele) «Il nostro ingresso in azienda, da figli, all’epoca era prassi: tutti avevano come obiettivo quello di lavorare, noi compresi. Ci consentiva di avere un’indipendenza economica che non era scontata».
E poi cos’è successo?
(parla Stefano) «Nel 1990 zia ha venduto tutto ed è iniziata la nostra “vera” avventura. Papà ha rilevato il know how del prodotto Fantasia Italiana e abbiamo iniziato a operare con tre tour: eravamo forti nell’incoming, ma deboli nell’outgoing. Io ho cominciato a far visita alle agenzie, l’ho fatto ininterrottamente per 10 anni, fino al Duemila, conoscendole una a una. Se non ci avessero appoggiato, oggi non saremmo ciò che siamo. È per questo che sono grato a tutte loro e in particolare a quelle del centro-sud».
(parla di nuovo Carlo) «Proprio nel 1990. Facemmo quello che oggi si chiama brain storming per trovare un nome. Optammo per Vera, intesa come verità: volevamo un brand corto che in qualche modo richiamasse i vari Alpitour, Aviatour. Ricordo la prima pubblicità, era gennaio di quell’anno e comprammo una pagina proprio su L’Agenzia di Viaggi. L’immagine ritraeva una centralinista che rispondeva al telefono: qualcuno dall’altro capo diceva “Pronto, parlo con Viajes Ecuador?” e lei rispondeva “No, qui è Veratour”. Ed era dura far sì che si fidassero, soprattutto le agenzie del nord: all’inizio facemmo credere loro di avere una sede a Milano, al telefono bisognava rispondere con accento settentrionale. Di necessità virtù…».
Il momento del salto all’outgoing era arrivato…
(prosegue Carlo) «Già. L’incoming ti concedeva uno status da ricco, ovunque andassi ti si spalancavano le porte, ma in fondo ricco non lo eri: i margini erano risicati. Regalai a Carrani il pacchetto Fantasia (tuttora prodotto di punta dell’azienda di Paolo Delfini, ndr) e prendendo ispirazione dal migliore costruimmo una programmazione totalmente nuova».
Chi era il migliore all’epoca?
(ancora Carlo) «Senza dubbio Bruno Colombo. Studiammo i Ventaclub del Ventaglio: un prodotto per tutti che si collocava nel mezzo tra la formula spartana di alcuni villaggi e quei resort di fascia alta, inaccessibili alla massa. Così nel 1995 sorse il primo Veraclub: il Nuraghe di Porto Rotondo».
(continua Daniele) «Una nuova era aveva preso il via. Mettemmo in piedi la divisione villaggi, per cui strategico era la scouting delle strutture. Ingaggiammo alcuni esperti in quel campo che ci affiancarono per tre, quattro anni, il tempo di rodare la macchina».
(parla Stefano) «E io intanto macinavo chilometri, incontravo agenzie, gli raccontavo il nostro prodotto: prima le Canarie e Cuba, poi la Repubblica Dominicana e il Mar Rosso. Da lì non abbiamo mai smesso di crescere, fatta eccezione per il Covid che ci ha costretti a fermarci».
Maledetto Covid. C’è stato un momento peggiore di quello?
(risponde Carlo) «Direi di no. Nulla in confronto con la guerra in Iraq e le Torri Gemelle, che comunque non avevano compromesso del tutto l’operatività. Con la pandemia invece abbiamo chiuso. Ma lei se lo immagina un ufficio di 4mila metri quadrati serrato? Ogni tanto, la mattina, andavo lì e lo aprivo. Non riuscivo ad accettare quello che stava accadendo. Ma con il senno di poi è stato molto istruttivo: ci ha aiutare a capire che nulla è scontato e che il turismo – morto e presto risorto – è un bene incomprimibile. E comunque senza il grande lavoro delle associazioni, Astoi in testa, non ci saremmo rialzati così in fretta».
(gli fa eco Stefano) «È stato un periodo orribile. A ossessionarmi era il pensiero dei dipendenti, della cassa integrazione, che non avevamo mai impiegato prima. Siamo sempre stati un’azienda solida con buone risorse e un grande rispetto per il capitale umano. Ci siamo ritrovati da un giorno all’altro vulnerabili: una sensazione difficile da elaborare».
La pandemia vi ha costretti a casa. Come tutti del resto. Ma nel vostro caso famiglia e lavoro coincidono, no?
Il cane Asha fa irruzione nella foto di famiglia
Stefano e Daniele, co-ceo parigradi di Veratour, sono anzitutto fratelli: vivono l’uno accanto all’altro all’Eur, insieme corrono nel parco vicino casa. E mentre Stefano mette su i dischi – aridaje con la musica – Daniele gioca a tennis da professionista. A questa domanda, perciò, rispondono all’unisono con un secco «No, quando torniamo a casa non parliamo di Veratour, né di altro che ne abbia a che fare. Sebbene ciò che facciamo ci appassiona e ci diverte, al punto da non riuscirci a immaginarci altrove almeno per i prossimi 10 anni. Ma lo spazio privato resta sacro. E in questo siamo diversi da papà che il lavoro non lo mollava mai. Capitava fosse nervoso e avesse in testa pensieri che non riusciva a mettere da parte».
Non deve essere stato facile. Eppure ho di fronte tre persone in totale armonia. Come avete fatto a raggiungere questo equilibrio?
(qui interviene Daniele) «Beh, innanzitutto volendoci bene e rispettandoci in toto. In azienda abbiamo ruoli ben precisi, che rispecchiano le nostre attitudini: Stefano è più sul commerciale, io mi occupo di contrattazione e prodotto. Abbiamo fiducia reciproca e non capita mai che l’uno metta in discussione le decisioni prese dall’altro. La suddivisione delle competenze e delle responsabilità è fondamentale. Papà lo ha sempre saputo. Ed è per questo che riusciamo ad andare così d’accordo». Un’alchimia rara, se non unica, per due generazioni di imprenditori…
(continua Daniele) «Ci ha agevolato, credo, la vicinanza d’età con papà. Vent’anni di differenza non erano tanti. E quando è arrivato il momento, eravamo già grandi abbastanza per prendere decisioni». La vera sfida sarà la terza generazione. (parla Carlo) «Al terzo giro di boa sopravvive solo il 30% delle aziende, leggevo. Ad oggi fanno capo alla nostra famiglia tre società: Veratour, Pavese Immobiliare con tre hotel di proprietà e l’ultima nata Hosteda, società di gestione alberghiera che al momento lavora all’80% con Vera, ma l’obiettivo è far sì che si muova in modo più indipendente. È più piccola e agile, un buon piano B per la famiglia. Just in case…».
Nel caso in cui Veratour sarà venduta, intende?
(continua Carlo) «Chissà. Sarà la terza generazione a deciderlo. L’altra sera ho visto in tv lo spezzone di un film. Un uomo osservava il mondo da un cannocchiale al contrario. Non vedeva quasi più nulla. Ecco, io oggi sono così».
Ma avete ricevuto qualche offerta?
(ancora Carlo) «Sì, certo. Negli anni attraverso la finanza abbiamo ricevuto alcune proposte, ma non le abbiamo prese in considerazione. Decideranno i nipoti, ma dovranno sempre tenere conto che nella villaggistica Veratour è un unicum, anche per via degli Ebit fatti negli ultimi 10 anni: i migliori sul mercato in relazione al fatturato. A marzo comunicheremo i dati di bilancio 2024, ma già ora posso dire che non emergeranno “salti”, bensì una crescita consolidata».
Progressi in stile Pompili. Un cognome che oramai è un modello di business.
(risponde Stefano) «Quando papà, alcuni anni fa, ci ha ceduto il timone dell’azienda conservando il ruolo di presidente del consiglio di amministrazione, ci ha detto “vi sto lasciando un orologio svizzero”. Ebbene, noi abbiamo preservato la sua visione, ma qualche lancetta l’abbiamo spostata. Ci siamo affidati a un consulente e abbiamo virato su un approccio più manageriale e meno paternalistico. Continuiamo a motivare il team ma basandoci sui numeri, sugli obiettivi: sono quelli che contano. La gestione ruota adesso intorno all’Mbo (acronimo di fronte al quale Carlo quasi sobbalza), che sta per Management by Objectives. In altre parole, meno pacche sulle spalle e più premi».
Il lessico manageriale si alterna a quello familiare. Ma c’è una figura della sfera privata di cui non si parla spesso: Nunzia. Che ruolo ha avuto nella storia di Veratour la vostra mamma?
(rispondono Daniele e Stefano) «Lei è ed è sempre stata l’anima. È grazie alla nostra Nunzia se si è innescata tra noi figli e papà una sinergia anche lavorativa. È una donna estroversa, empatica, senza peli sulla ligua. È sempre rimasta dietro le quinte, ma il suo ruolo è stato cruciale soprattutto nel gestire le controversie. La sua più grande dote? Riuscire a essere in ogni caso obiettiva, al di là dell’amore».
L’intervista è terminata. La chiudiamo con un abbraccio, com’è giusto che sia. L’ascensore ci riporta al piano terra, ma i pensieri restano lassù dove Carlo Pompili – dal fortino di Hosteda – continua a scrivere quella che è senza dubbio una delle più belle storie imprenditoriali d’Italia.