Stretta e lunga come la lingua di terra che la ospita. Incastrata tra le montagne e il mare. Con i palazzi addossati, che sembrano sul punto di tuffarsi e la sopraelevata del 1965 – raccordo tra Levante e Ponente – a fare da ipotetico trampolino. È un sabato di febbraio e dicono che c’è ancora un po’ di macaia. Che si capisce dalla foschia, e che questa parola, tipicamente genovese, viene da “ammaccare”. È quel vento del nord che spazza tutto ma non qui, non a Genova, dove a volte si ferma, fa salire l’umidità e rende nervosi gli abitanti, che mugugnano più del solito. Ma poi passa, nel giro di qualche ora. E intanto per chi non è del posto e non lo sa c’è anche il sole, forse il primo a farsi beffe di questo inverno freddo.
Si sale e si scende a Genova, si entra e si esce dal cuore delle cose. Per capirla, raccontano i suoi abitanti, bisogna comprenderne la mancanza di spazio: c’è stato persino un tempo in cui ci si muoveva per la città con le portantine, unico mezzo di trasporto in grado di attraversare alcuni caruggi. Il tempo vola mentre ci si avventura da via Prè – da sempre quartiere di stranieri, oggi il 12% degli abitanti – a via del Campo, per continuare su via San Luca, piazza Banchi, e affacciarsi e rivedere il sole sul lungomare sotto i portici di Sottoripa.
Genova si vede bene solo dal mare, all’interno invece la si vive. E allora si rientra verso via Orefici, piazza Soziglia, via dei Macelli di Soziglia, per sbucare su piazza delle Fontane Marose e su via Garibaldi, ammirare l’eleganza dei palazzi dei Rolli, le tre dimore storiche di proprietà comunale della cinquecentesca Strada Nuova. Senza dimenticarsi piazza de Ferrari, il Teatro Carlo Felice, il Palazzo Ducale, e infine il Palazzo Reale quando si torna indietro, verso il Grand Hotel Savoia, a un passo dalla stazione Principe.
È un labirinto di clan, dove ognuno ha avuto la sua torre, tra statuti scritti per metà in genovese e per metà in bergamasco; è un mix di Medioevo, ‘700 e ‘800 che convivono e si appoggiano l’uno all’altro.
Si sale tanto nella Genova verticale, fino alla spianata Castelletto con il suo ascensore Liberty. Lo sguardo va dai tetti in ardesia alle torri medievali, si spinge in lontananza verso il mare, tra navi moderne e memorie antiche.
E dalla città della Lanterna si fugge anche. Ci pensò già a metà del ‘400 il principe di Melfi Andrea Doria, che costruì il suo palazzo vicino alle navi per poter, all’occorrenza, scappare.
Molto più lontano – ben oltre la Fiera – c’è Nervi, con la passeggiata Anita Garibaldi, la più romantica: due chilometri di ringhiera celeste a picco sulla scogliera, tra macchia mediterranea, stabilimenti balneari e gozzi di pescatori.
“Ma quella faccia un po’così, quell’espressione un po’così che abbiamo noi mentre guardiamo Genova. E ogni volta l’annusiamo e circospetti ci muoviamo, un po’ randagi ci sentiamo noi”. Dice bene Paolo Conte, in Genova per noi, sull’effetto che fa. Ma una volta che un genovese apre le porte del cuore si capisce che è per sempre.