by Giampiero Moncada | 13 Novembre 2024 11:10
Quello di Perth, in Western Australia[1], è stato il primo Global Summit con Greg O’Hara in veste di chairman del Wttc – World Travel and Tourism Council. E, forse proprio perché lui è il fondatore del mega fondo d’investimenti Certares, specializzato nel settore del turismo, la manifestazione ha ospitato diversi interventi dedicati al mondo della finanza. Tra l’altro, il Global Summit ha ospitato la prima edizione dell’Investor’s Nest, concorso per studenti di tutto il mondo che elaborano un progetto innovativo per il turismo del futuro.
A vincere il premio è stata una studentessa vietnamita, Nguyen Thao Van, con il progetto Dynapath che trasforma i rifiuti di plastica in piastrelle cinetiche in grado di generare energia elettrica utilizzando il calpestio delle persone che ci passano sopra.
«Anche se il nuovo concorso prevede un solo vincitore – ha detto la presidente del Wttc, Julia Simpson – Io spero che anche altri progetti finalisti possano essere realizzati». Tra i componenti della giuria, l’italiano Paolo Barletta, ceo di Arsenale Spa, e lo stesso O’Hara.
È a quest’ultimo – presente in veste di speaker al G7 Turismo di Firenze[2] nel panel del side event “Inspiration” – che L’Agenzia di Viaggi Magazine ha chiesto quale sia oggi il rapporto tra il mondo della finanza e le imprese turistiche.
La finanza nel turismo non è una novità…
«No, non lo è affatto. Le persone investono nel turismo fin dai tempi dei Romani, no? Nel tempo sono state costruite grandi cose: l’Italia, ad esempio, ha uno dei sistemi ferroviari migliori al mondo e Trenitalia e Italo lo dimostrano con i loro prodotti fantastici. Queste attività sono sostenibili solo se generano profitti, ma chi mette i soldi? Nella maggior parte dei casi è una combinazione del settore privato e del settore pubblico e in Italia ci sono molti esempi eccellenti di questo tipo. Ma anche in Francia, Grecia, Arabia Saudita. Il tema è come attrarre investimenti in diversi Paesi».
In Italia, l’ospitalità è principalmente gestita da piccole e medie strutture. I grandi Gruppi finanziari di solito non guardano questo tipo di aziende?
«Penso che molte volte le piccole e medie imprese italiane non siano affatto interessate a vendere la propria attività. Possedere un’attività specifica è ciò che le rende rilevanti nella loro comunità. Ma ci sono anche grandi aziende, ad esempio Alpitour che è gestita da un manager molto capace, Gabriele Burgio. Oppure, prendiamo le agenzie di viaggi di lusso. Invece di avere un’agenzia nazionale, in Italia ce n’è una grande a Venezia, una grande a Bologna, una a Milano, e un’altra ancora a Roma e a Firenze. Ci sono tutte queste diverse attività, che però non uniscono le forze per creare un’entità nazionale. Per fare questo bisogna fornire capitale a una o più persone ambiziose, che vogliono aggregare aziende. La maggior parte di queste aziende non ha grandi capitali propri e quindi cerchiamo di investire insieme a partner italiani e creare aziende più grandi che siano più redditizie, che abbiano margini più alti e che possano fornire ai loro clienti servizi e prodotti migliori».
Pensa che le medie imprese abbiano bisogno di servizi diversi da parte delle istituzioni finanziarie?
«Assolutamente. L’Italia ha un grande sistema bancario che la gente spesso ignora. Fanno prestiti alle piccole imprese, ma le medie imprese italiane non sono state ancora in grado di attrarre capitale. Vediamo una grande opportunità in Italia per aiutare le imprese a diventare grandi. In Germania, per esempio, quelle medie imprese le chiamano mittlestand e attraggono molti soldi. In Italia, quelle stesse imprese non lo fanno. Agli italiani non piace vivere con un debito. Ciò di cui hanno bisogno è che arrivino i partner azionari perché non si sentono a loro agio a vivere con questi debiti nella loro azienda».
Si è parlato di tecnologia come chiave per lo sviluppo di un servizio finanziario. Ma la tecnologia è importante per le istituzioni finanziarie o, piuttosto, per le aziende che hanno bisogno di servizi finanziari?
«Credo lo sia per entrambe, no? La tecnologia è il modo giusto per strutturare qualcosa. Se ho 100 clienti e devo investire 100 dollari, parliamo di un euro per cliente. Se ho 1000 clienti e devo investire 100 euro, sono 10 centesimi per cliente. È molto più conveniente investire, se sei grande. Quindi avere persone che spendono soldi in tecnologia e li ammortizzano su una base di clienti più ampia, rende tutto più facile. Le aziende più grandi sono quelle che hanno più successo quando investono in tecnologia. E questo perché possono ammortizzare quell’investimento su una base molto più ampia».
Paolo Barletta ha detto che investire nel turismo non è esattamente per piccoli investitori. Il motivo è che si tratta di un investimento rischioso?
«No, pensi agli imprenditori italiani di successo. Guardi Pier Francesco Vargo con Msc: hanno fatto grandi cose perché hanno accesso al capitale. Altri come Manfredi Lefebvre, Gabriele Burgio, Massimo Caputi? Anche qui, accesso al capitale. È così che queste persone sono state in grado di far crescere le loro attività. Ce ne sono molte di più di quelle che ho citato. Penso che Barletta stesse cercando di dire che, se sei un piccolo investitore familiare, è rischioso mettere un assegno consistente rispetto al tuo patrimonio netto in una specifica attività. Mentre posso prendere i loro soldi e distribuirli su un certo numero di investimenti diversi, creando un portafoglio di aziende in modo che non li rischino in un investimento singolo e specifico. Quindi, se una parte del settore sale, un’altra parte potrebbe scendere; ma i rendimenti sono generalmente piuttosto buoni».
Quasi tutte le grandi aziende, in Italia, sono aziende di famiglia. In ogni settore abbiamo un problema di transizione generazionale. In che modo i servizi finanziari potrebbero venire in aiuto?
«Tutto dipende dal proprietario, si tratta di una decisione molto personale. Molte aziende europee, specialmente nel settore dei viaggi, se hanno avuto molto successo trovano difficile far interessare i loro figli alla gestione dell’azienda. Questo ad esempio, non è vero nella moda, o nel settore bancario, non è vero in molti altri settori diversi dove i figli sono interessati a lavorare in quelle aziende. Ma nel turismo non succede. Di conseguenza una società di servizi finanziari come la mia, o un investitore finanziario come noi, può aiutarli a gestire una pianificazione. Non vogliono lasciare l’azienda ai figli, ma sono felici di lasciare loro i soldi che l’azienda produce. Dunque molte volte capitano situazioni in cui un imprenditore di grande successo, magari degli anni ’60 o ’70, è pronto a fare un passaggio generazionale e inizialmente compreremo parte dell’azienda e per la parte restante continuiamo a cercare di far interessare i membri della famiglia a lavorare nell’azienda. A volte abbiamo successo, a volte no. E se finiamo per possedere un’intera azienda, va bene. Se finiamo per detenere una parte dell’azienda, va bene lo stesso. Ma cerchiamo di lavorare con le famiglie per renderle più istituzionali, in un certo senso. Un figlio potrebbe non essere il miglior marketer, ma potrebbe essere molto bravo nelle operazioni, o viceversa».
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