La miniera d’oro asiatica nel futuro del travel

02 Ottobre 07:00 2019 Stampa questo articolo

Il futuro dell’industria del turismo mondiale passerà da qui. Perché l’Asia, con la sua estensione del Pacifico, è l’area del globo dove già adesso i tassi di crescita del travel sono i più significativi. Certo, a dare retta ai dati presentati l’anno scorso dalla Unwto e dal Global Tourism Economy Research Centre nell’ultimo Asia Tourism Trends, la regione più visitata continua a essere quello europea, ma è proprio tra subcontinente indiano, Far East e Sud-Est asiatico che il numero di viaggiatori cresce a “botte” del 6-7% all’anno (la media mondiale è il +4%), avendo raggiunto la cifra record di 335 milioni di turisti, con un giro d’affari di 502 miliardi di dollari (più di un terzo del giro d’affari di tutto il mondo).

In Asia d’altronde, si legge nello studio, risiede più della metà della popolazione mondiale, con un ceto medio in continua ascesa, che quando si sposta per affari o per turismo, preferisce comunque scegliere mete vicino a casa, e se proprio deve fare un viaggio long haul si reca in Europa. Ma il continente asiatico funziona da attrattore anche per i turisti internazionali. Basti pensare che, secondo i dati di TripAdvisor, le ricerche di informazioni sulle mete Apac (regione Asia Pacifico, ndr) sono aumentate negli ultimi tre anni del 23% se si guarda solo ai viaggi intraregionali e del 6% per quanto riguarda i viaggiatori di lungo raggio.

Ma quali sono le principali differenze tra il viaggiatore asiatico e quello occidentale? A dirlo è una recente ricerca di Phocuswright che, mettendo a confronto l’utilizzo del mobile da un capo all’altro del globo, ha scoperto come in Asia Pacifico ben il 55% delle prenotazioni online avvengano via mobile (i dati sono riferiti al 2019), contro il 25% degli Usa e il 30% in Europa. Addirittura, in Cina queste percentuali arrivano all’80%, con lo smartphone che viene utilizzato anche per effettuare le transazioni legate all’ecommerce.

Quando si tratta di ispirarsi, invece, i viaggiatori asiatici non sono poi così diversi da quelli di Stati Uniti ed Europa. Al primo posto tra i canali di “influenza” non mancano social come Facebook, Twitter e Instagram, meno famosi però di piattaforme come ad esempio Weibo (Cina) e Line (Giappone), o sistemi di messaggistica come WeChat. E se in un Paese tecnologicamente avanzato come gli Usa, “solo” il 40% dei viaggiatori si affida a social network o a portali di recensioni per condividere le proprie esperienze di viaggio, in India questa percentuale sale al 55-60%.

Del resto, l’interazione con il mobile è alta anche nel caso di customer experience, con i due terzi dei coreani che si dichiarano “felicemente” interessati a ricevere sui propri dispositivi offerte personalizzate relative ad hotel, attività e mete da visitare. Attenzione, però. Con i numeri che, anno dopo anno, la travel industry asiatica sta mettendo in piedi, il rischio overtourism è dietro l’angolo. Anzi, con il deficit di infrastruture ancora presente in larga parte delle mete turistiche del continente, il massiccio afflusso di turisti (soprattutto cinesi) promette, quando già non lo sta facendo, di arrecare più danni che benefici.

Le soluzioni però ci sono: bisogna incominciare a promuovere mete “alternative” e secondarie, è la conclusione a cui arriva la survey di Phocuswright, ma soprattutto bisogna convincere policy maker e autorità turistiche a misurare il successo di una politica turistica non sulla base del numero degli arrivi, ma su quello dei ricavi. Proprio come ha fatto recentemente la Thailandia, dove l’aumento del numero di turisti (+9% nel 2017) si è accompagnato a un +12% nei profitti legati al mondo dei viaggi.

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Giorgio Maggi
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