«Da ragazzo stavo per diventare pasticciere, lavoravo in laboratorio, ma volevo di più. Sono curioso per natura e ho scelto un’altra strada, dove potermi evolvere continuamente». Anima da artigiano, piglio concreto, Franco Gattinoni – unico imprenditore tra sei fratelli – ha scalato tutta la filiera del turismo, salendo sempre un gradino alla volta: dal lavoro come facchino ai villaggi, dalle ferrovie alla biglietteria aerea.
«Nessuno conosce bene il settore come me», dice senza falsa modestia. Esattamente 36 anni fa ha fondato un Gruppo che è ora tra i leader dell’industria turistica. Una sorta di American Dream in salsa brianzola che ha portato un ragazzo di Valmadrera, in provincia di Lecco, a creare un Gruppo da 300 milioni di euro di fatturato. Passo dopo passo, senza imprudenti fughe in avanti. Un maratoneta più che uno sprinter, con uno stile tutto suo che oggi è come un marchio di fabbrica.
«Non è stato semplice, ma ci ho messo tutto me stesso, con sacrificio e sete di conoscenza», ricorda Gattinoni, staccandosi di dosso quell’etichetta che lo vorrebbe ruvido e un po’ timido, per tornare alla sua anima da instancabile lavoratore, figlio di una cultura contadina che raccoglie i frutti, ma che pensa già alla prossima stagione.
Con Marsupio il network conta 1.120 agenzie: ha paura?
«È una parola che non conosco nel lavoro. Nella mia vita avrei dovuto avere paura tante volte: invece mi sono sempre messo a studiare, rimboccandomi le maniche. Ho competitor agguerriti, ma non mi sento secondo a nessuno. Da quando c’è stata la scelta di investire nel network in maniera forte, lo abbiamo dichiarato (1.000 adv entro il 2018, ndr) e lo abbiamo fatto».
Altre acquisizioni in vista?
«Alcuni network bussano alla porta, ma devo capire prima in che modo integrare i business. Non mi interessa fare subnetwork, ma accordi strutturati di qualità. Oltre i Gruppi legati ad Alpitour ci sono poche realtà, ma hanno bisogno di una visione che vada oltre i sei mesi. Non siamo un network speculativo, non voglio costringere le agenzie a restare, se lo fanno è perché ci riconoscono valori e competenze».
Qual è il segreto del suo percorso?
«Nessuno. Ho iniziato come semplice impiegato in agenzia per 10 anni, poi ogni anno c’è stata un’evoluzione. Nessuno mi ha regalato niente: ho frequentato scuole e università serali, dopo il lavoro, per rimanere sempre aggiornato e crescere. Poi ho anche preso le decisioni che sentivo giuste, senza ascoltare i guru».
C’è stato un momento di svolta?
«La crisi profonda del 2008-2009: è stato un biennio difficile. Anziché tirare i remi in barca, mandare qualcuno in cassa integrazione e ridurre il personale, ho deciso di investire risparmi e guadagni in nuove attività. Mi sono detto: “Nessuno deve restare indietro”. Per 4-5 anni è stata durissima, ora però l’azienda cresce e ho 400 dipendenti. Dieci anni fa erano 180».
Oggi è ancora possibile crescere dal basso?
«A un giovane non consiglierei di creare un network, lo trovo anacronistico. Ma ci sono tante opportunità, bisogna individuare il business più adatto ai tempi. Il mio consiglio è di non cercare mai di copiare qualcuno pensando che tu lo possa far meglio: meglio seguire un progetto originale guardando alle proprie competenze».
Nel turismo ognuno deve fare il suo mestiere?
«Sono parzialmente d’accordo. È possibile sviluppare e investire in asset di sinergia vera, ma senza dimenticare da dove si viene. Ogni tanto qualche imprenditore fa l’errore di innamorarsi di un nuovo business e dimentica quello che ha fatto prima. Ho sempre detto che non avrei acquisito un tour operator, altrimenti mi sarei tenuto Hotelplan. Noi sviluppiamo, invece, un prodotto interno su quelle realtà dove la filiera è troppo lunga, banche letti e mare Italia, per esempio».
E funziona?
«Certo. Perché dovrei andare a comprare da t.o. che hanno fatturati 10 volte inferiori al nostro? Contrattando direttamente siamo competitivi sul prezzo risparmiando su marketing e promotori e lasciando più marginalità alle agenzie. Ma sia chiaro, vendiamo solo alle adv del network».
Ora si riposerà?
«Non credo, devo correre ancora tanto. Da 2 anni ho cambiato l’organizzazione con l’ingresso di manager che non avevamo, da Sergio Testi a Isabella Vallini. Ora c’è una struttura che mi permette di guardare avanti, una squadra affiatata. L’arrivo dei manager serve a dare ordine, ma non devi lasciare carta bianca finché non si conclude l’inserimento nel rispetto di chi nell’azienda ci lavora da anni. Ognuno impara un po’ del valore dell’azienda e viceversa i manager portano una organizzazione nuova. Adesso sto lavorando alla formazione delle seconde linee».
I prossimi passi?
«Non escludo un futuro dove mantengo il controllo dell’azienda, cedendo però alcune quote ad acquirenti interni. Ma non ho progetti di quotare la società in Borsa, né di fare entrare fondi. È una visione che non mi appartiene, a me piacciono i progetti a lunga scadenza. Con i fondi in 2-3 anni devi spremere tutto, come l’agricoltura intensiva. Poi entrano i capitali, ma non c’è più l’azienda perché hai seccato tutto, risorse umane e prodotto. Preferisco raccogliere i frutti, un poco alla volta, ma custodire già i semi per l’inverno».