Paolo Barletta, ceo del Gruppo Barletta, è tra gli imprenditori italiani più attivi nel campo della finanza a sostegno del turismo. Tra i progetti in fieri il treno di lusso Orient Express La Dolce Vita, promosso dal “suo” Arsenale Group in partnership con Fs e Accor e presentato nel corso del G7 Turismo di Firenze – alla cerimonia ha ovviamente presenziato il ministro Daniela Santanchè insieme alle delegazioni internazionali presenti e a Paolo Barletta – in vista dell’inaugurazione a gennaio 2025.
Al Global Summit organizzato dal World Travel and Tourism Council a Perth, nel Western Australia, Paolo Barletta ha partecipato a un panel condotto da Greg O’Hara, chairman del Wttc e fondatore di Certares. In quest’occasione L’Agenzia di Viaggi Magazine lo ha intervistato.
Negli ultimi due anni l’Italia ha registrato movimenti mai visti prima nelle proprietà delle strutture ricettive…
«Sì, assistiamo a investimenti da parte di molti Gruppi che non sono necessariamente stranieri e che talvolta passano da altre industrie all’hospitality. Bill Gates ad esempio è socio di maggioranza di Four Seasons, sebbene gli hotel non rientrino tra i suoi interessi primari. Questo accade anche al mercato italiano: capita che società importanti che operano nel settore del fashion, per dirne uno, si convertano aprendosi a tale business. Fa scuola Lvmh, che ha costituito prima Cheval Blanc e poi ha comprato Belmond e investito in Bulgari Hotel».
Lei ha sempre puntato sul settore del turismo e dei viaggi?
«Sì, e con Arsenale Spa ci sono anche i treni con l’Orient Express, oltre all’alberghiero. Noi come Gruppo non nasciamo hotelier, ma sviluppatori immobiliari. Ma per una costruzione residenziale, un centro commerciale o un albergo il proces- so è molto simile. Da qui abbiamo capito l’importanza del patrimonio turistico per il grande mercato italiano e abbiamo concentrato su questo comparto le nostre attività».
Viaggia molto per lavoro. Cosa trova di diverso nella cultura dell’ospitalità italiana?
«In Italia c’è un rapporto umano che rende l’esperienza speciale. È un unicum, insieme alla bellezza del Paese ovviamente. Quello che manca sono sicuramente le infrastrutture, non solo alberghiere, ma in generale. Mancano i servizi di noleggio con conducente di certe tipologie, una ristorazione più variegata all’interno di grandi città e dmc molto organizzate capaci di offrire esperienze più personalizzate».
Agli esordi del turismo di massa, negli anni ‘60- ‘70, l’Italia pativa un certo provincialismo: i ri- storanti non offrivano cucina internazionale, ad esempio, e molti visitatori non gradivano spaghetti e caffè espresso. È importante accontenta- re il turista o portarlo verso nuove esperienze per avvicinarlo alla cultura locale?
«Il turista non è solo quello straniero e il mondo dell’ospitalità è composto da servizi che riguar- dano tanti aspetti. Sicuramente noi non dobbiamo diventare americani o cambiare la nostra cultura. Allo stesso tempo, in una città come Roma non si può pensare di avere 100 ristoranti su 100 che offrono cucina italiana. Altrimenti il turista, anche italiano che decide di restare nella Capitale una settimana, sarà costretto a mangiare per sette giorni cucina romana. Credo si debbano offrire tutte le opzioni possibili. Per questo sono stati aperti anche da noi tanti ristoranti giapponesi: gli avventori, com’è giusto che sia, desiderano variare. In tal senso bisogna rendersi conto che un’of- ferta più ampia e internazionale non sottrae nulla alla nostra italianità. Quasi in ogni bar ormai si può trovare “l’americano”, anche se l’espresso resta l’abitudine più radicata».
L’ospitalità di respiro internazionale è favo- rita dai grandi Gruppi finanziari proprietari delle strutture anziché da storiche famiglie di imprenditori?
«Sì ma esistono anche tantissimi italiani capaci di internazionalizzare le loro proprietà. Un esempio su tutti: Borgo Egnazia in Puglia. Qui troviamo ristoranti di vario tipo, orientati perlopiù alla cucina italiana, ma con servizi diversi. Anche a Roma stanno nascendo alberghi, gestiti in alcuni casi da Gruppi italiani, che hanno all’interno più di un ristorante proprio per garantire un’offerta diversificata».
Quindi, la proprietà familiare e italiana non impedisce l’internazionalizzazione?
«No ma bisogna studiare, acquisire competenze. Lo possono fare tutti, ma devono do- tarsi dei sistemi giusti. Chi non investe nel personale, nella formazione, chi non sceglie dei manager con esperienza internazionale perché “tanto le camere si vendono lo stesso”, gestisce un tipo di hotel che non fa innovazione. E finché si tratta di un due o tre stelle si può anche operare senza avere questa visione internazionale. Ma se si va sul cinque stelle o sull’ultralusso, la gestione non si può improv- visare. È un’organizzazione troppo complessa per poterla affrontare senza una visione ma- nageriale».
Comunque, la finanza era stata fuori dalle proprietà alberghiere italiane e da qualche anno sembra trovare sempre più spazio.
«Più che la finanza in generale è quella non bancaria. Perché quella bancaria, purtroppo, si tiene ancora fuori dall’hospitality. Lo considera un settore a rischio e io questo lo trovo una follia in un Paese come l’Italia. È normale che anche i fondi che hanno tantissimi soldi da spendere siano pronti a pagare quel prezzo in più dato che i mega Gruppi di catene fanno a gara per entrare nel nostro Paese».
La situazione l’ha sbloccata il Covid, soprattut- to a Roma dove le grandi famiglie hanno sem- pre tenuto strette le propriete degli alberghi di categoria superiore?
«Sì. Per dirla in parole povere: i grandi fondi d’investimento danno a queste famiglie “un sacco” di soldi».
Questo significa anche dare un’opportunità al piccolo risparmiatore?
«Anche qui dipende. Non è che uno si inventa imprenditore dalla sera alla mattina e inizia a investire in un mercato che non è il proprio. Ci so- no moltre famiglie italiane che decidono di aprire dei bed & breakfast perché sono facili da gestire. Non un albergo, si badi bene, perché bisognereb- be affrontare problematiche complesse: il personale, la gestione delle piattaforme di prenotazione, la promozione».
Infatti il tema è l’investimento in un fondo o in una società, non la gestione diretta…
«Costituire una società oggi, così come comprare quote, può risultare molto complicato. Certo, ci sono i fondi a capitale aperto, nei quali si può investire direttamente. Ma di fondi settoriali attivi nell’hospitality, in Italia, non ce ne sono. E anche nel resto del mondo non è che ce ne siano tanti».
E Certares, il fondo creato proprio dal chairmain del World Travel and Tourism Council?
«Quello è un fondo che va agli investitori istituzionali. Il “piccolo” che ha 250mila euro da investire non li dà a Certares. Perché non saprebbe nemmeno come darglieli. E comunque, nel mondo dell’hospitality, soprattutto nell’asset medio e nel mercato del lusso, servono capitali importanti.