by Roberta Rianna | 14 Settembre 2020 14:57
C’è un manager, tra tutti nel turismo, il cui sguardo è illuminato. Quasi rinascimentale. Un uomo venuto da lontano – professore di latino, greco e lettere classiche prima che organizzatore di viaggi – che in trent’anni ha saputo edificare un colosso come Quality Group. È Michele Serra, presidente di quel consorzio di nove brand che da Torino incontra il mondo.
La pandemia ha chiuso prima la sua amatissima Cina, poi l’intero pianeta, fino a investire il settore come un gigantesco meteorite. Nei mesi di lockdown è rimasto con i suoi in trincea, e lo è tuttora, mettendo in scena una signorile resistenza tra la scrivania e Twitter. Ed è quest’ultimo il luogo dove @mickserra[1] ha regolarmente condiviso il suo pensiero, spesso con poche ma efficaci parole.
Oggi ci fa dono – questa è la parola giusta – di un’analisi complessa e strutturata, pubblicata su Aboca Live Magazine[2].
Gli abbiamo chiesto l’autorizzazione a pubblicarla, allo scopo di portare alle agenzie di viaggi e ai tour operator che ci leggono una visione arricchente. Un’analisi schietta e doviziosa che si conclude con una certezza: «Il mondo che verrà avrà bisogno anche di noi».
Di seguito l’articolo integrale, a firma Michele Serra, pubblicato su Aboca Live Magazine con il titolo “Ma il turismo a cosa serve?”.
Leggendo l’ennesimo bollettino di guerra Istat con i dati del Pil dell’ultimo trimestre (in cui si evidenzia che il turismo è il settore che soffre più di tutti), mi ha sorpreso una considerazione: qui non si tratta solamente di un problema economico, ma, se così posso dire, di una crisi esistenziale. In trent’anni di avventura professionale, credevo di essere passato attraverso tutte le tipologie possibili di crisi (rivolte, attentati, pestilenze, terremoti, tsunami, crisi economiche…), gestendole come qualcosa tutto sommato di prevedibile e, in quanto tale, affrontabile; stavolta, però, è in gioco il senso stesso di sopravvivenza di un’attività economica quale la mia.
Cerco di spiegarmi: sin dall’inizio, si è identificato nei viaggi e negli spostamenti il responsabile principale di diffusione dell’epidemia: chi cercava di tenere in piedi la propria attività di organizzatore di turismo veniva additato come untore, mentre tornavano a diffondersi le annose dicerie per cui il turismo verso l’estero è un’attività inutile, se non dannosa (drena ricchezza al paese, inquina, è un lusso inutile, crea disagi da overtourism, etc.).
Ci siamo trovati ad affrontare un semestre a fatturato zero, con tutti i nostri investimenti per il 2020 da gettare nel cassonetto, tutto il personale impegnato a smontare affannosamente il lavoro già fatto e a riportare a casa in fretta e furia le migliaia di italiani rimasti incastrati all’estero. Nel frattempo, l’opinione pubblica ci guardava con sospetto, come affaristi privi di scrupoli. E alcuni “super-esperti” discettavano di un turismo del futuro totalmente diverso dall’attuale, fatto di piccole élite oclofobiche e di prezzi altissimi.
Mentre, quindi, cominciavamo a fare i conti del disastro economico, prendevano forma domande inedite, che sono il fulcro di questa crisi:
Dietro a queste domande (e a tutte le altre ad esse correlate) se ne profila un’altra, la più oscura di tutte: sarà ancora possibile il nostro turismo a fine crisi? Ha senso impegnarsi in questa resistenza a oltranza per mantenere viva la nostra cultura e la nostra esperienza di artigiani del viaggio di qualità, o in futuro il modo (e i numeri) di fare turismo sarà così diverso da rendere inutile la sopravvivenza dei tour operator e delle agenzie di viaggi?
Davanti a questa sfida così inedita, la prima evidenza è che è inutile sforzarsi di mantenere il controllo: quando sei nella burrasca, l’orizzonte non si vede e si deve proseguire alla cieca, cercando di mantenere la rotta basandosi sulla sola forza della ragione. Quali sono le evidenze su cui ci appoggiamo, dunque?
Soprattutto, però, è una considerazione a sostenere la nostra speranza e la nostra tenacia: il nostro lavoro è utile. Viaggiare (e quindi mescolarsi con la gente, conoscere, aprirsi al mondo, alle sue culture, alle sue meraviglie e contraddizioni, confrontarsi con il diverso da sé) ha una funzione educativa insostituibile: serve a vincere il proprio provincialismo e i propri pregiudizi, a dilatare gli orizzonti, a migliorare come uomini e come cittadini del mondo. Ed è una riserva di emozioni e di esaltazione con pochi uguali. È inutile nascondersi dietro ragionamenti miopi e meschini (del tipo “l’Italia agli Italiani”): tutti abbiamo da guadagnare dalla reciprocità turistica, ma in special modo l’Italia. Ve la immaginate l’Italia senza cinesi e americani?
Questo è il momento di restare lucidi e coesi, vincendo ogni tentazione di gettare la spugna, cercando di riuscire a interpretare l’evoluzione della crisi e a essere pronti ad adattarci al contesto che si verrà a creare, qualunque esso sia. Il mondo che verrà avrà bisogno anche di noi.
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