Povere e in difficoltà, troppo territoriali e restie a puntare al B2B: questo è il quadro delle startup italiane del turismo disegnato dal Politecnico di Milano durante il suo Osservatorio sull’innovazione digitale nel settore.
La ricerca è stata condotta su un campione di 334 startup finanziate da investitori istituzionali a livello globale, a cui si aggiungono 172 startup italiane. Risultato: il valore economico totale è di 703,4 milioni di euro di finanziamenti. Troppo poco per il nostro Paese e per un settore così strategico, anche perché le giovani aziende soffrono di nanismo e iperlocalismo: troppo piccole, eccessivamente radicate nel territorio, orientate al B2C e con poca spinta all’internazionalizzazione.
I dati del Politecnico riportati dal sito internet de Il Sole 24 Ore rilevano come nonostante le grandi potenzialità, nel 2016 le imprese turistiche italiane siano riuscite ad attrarre circa 20 milioni di euro. Una cifra che equivale più o meno alla metà di quanto è riuscita a raccogliere solo una delle startup di maggior successo come Musement. Altro dato preoccupate è quello che vede le imprese italiane che si occupano di turismo rappresentare solo il 2% delle startup globali che operano nel settore. Una percentuale molto bassa per uno dei comparti più strategici per lo sviluppo del nostro Paese, soprattutto se confrontata con altri settori come quello dell’industria tecnologica o l’agrifood in cui le startup italiane arrivano al 10% globale.
Il motivo? Secondo Eleonora Lorenzini, ricercatrice presso gli Osservatori digital innovation del Politecnico, la motivazione è da ricercare nella peculiarità di un settore che è dominato da grandi colossi. La metà del finanziamenti – circa 392 milioni di euro – è destinato, per esempio, a sole 10 startup tra le quali non figura nessun nome italiano ma solo imprese straniere (Usa, tedesche, inglesi, cinesi).
Altre due ragioni di questa “sofferenza” riguardano l’eccessivo radicamento nel territorio delle nuove imprese e il loro orientamento B2C che prevede maggiori costi.
Osservando i dati del Politecnico si nota come la maggior parte delle startup abbia puntato sul turismo culturale, soprattuto per i servizi di prenotazione e biglietteria (37% dei casi). Anche se questo dato riflette la tendenza internazionale, in Italia questi servizi si concentrano più su tour e attività con esperti locali – oppure guide elettroniche e app di supporto alla visita in loco – invece che puntare sui servizi di maggior entità e business.
Queste ultime attività rende troppo specialistico il mercato italiano e «poco appetibile per quei fondi d’investimento che volessero scalarlo», suggerisce Pietro Ferraris, presidente dell’Associazione startup turismo.
Proprio l’Osservatorio del Politecnico di Milano, infatti, ha studiato dimensioni e fatturati delle startup turistiche italiane insieme all’associazione guidata da Ferraris.
Tra agosto e settembre 2017, per esempio, emerge che le imprese italiane hanno pochi dipendenti (2-3 persone nel 33% dei casi, 4-10 dipendenti nel 45%) e una bassa dotazione economica (nel 2017 il 44% prevede un fatturato annuo minore di 25mila euro).
Qualche buona notizia c’è: tra le imprese che stanno registrando i risultati più interessanti, ci sono Day Break Hotels, startup che ha superato il milione di euro offrendo servizi di hotel di lusso esclusivamente di giorno, e Tripler, piattaforma per la produzione di video professionali per il settore turistico che ha chiuso il 2016 con un fatturato di oltre un milione di euro.
La soluzione per crescere, secondo la ricercatrice Lorenzini, è puntare su tecnologia e B2B: «Le startup dovrebbe concentrarsi sui servizi e processi da offrire alle aziende consolidate che operano nel turismo. Sarebbero più scalabili e offrirebbero alle imprese più strutturate un partner tecnologico capace di aumentare la loro competitività».