Mentre l’Italia estende ad altri 100 comuni la tassa di soggiorno, e si riapre il dibattito, guardiamo cosa succede all’estero, dove questa gabella è ormai d’obbligo da diversi anni. Al di là delle differenze – spesso sostanziali – del suo peso specifico sul costo finale di un pernottamento, è la destinazione d’uso che la contraddistingue: è quasi sempre reinvestita integralmente nel settore turistico, in particolare in operazioni di marketing e azioni promozionali.
In Olanda e Germania il prelievo è intorno al 5% sul costo finale della camera d’albergo, mentre in Austria la tassa è proporzionale alla spesa complessiva del soggiorno e il prelievo non supera il 3%. In Francia la cosiddetta taxe de sejour va dallo 0,50 a 5 euro a seconda della tipologìa d’albergo.In particolare, a Parigi, oscilla da 0,42 centesimi a 1,50 euro al giorno a persona.
Negli Stati Uniti ci sono due tipi di tassa di soggiorno, la prima è un contributo fisso di 2 dollari al giorno, mentre il secondo prelievo è contabilizzato in percentuale e si aggira sul 5-6% sul costo della camera d’albergo. In Spagna c’è una diversificazione a seconda delle regioni: in Catalogna, destinazione turistica spagnola per eccellenza, non supera i 3 euro ed è proporzionale alla tipologia d’albergo.
Anche il Giappone applica un balzello del genere che varia a seconda del prezzo del soggiorno e parte da 10mila yen a notte (0,70 centesimi di euro). Infine, anche in Marocco la tassa varia a seconda della categoria degli alberghi: da 1 a 2,5 euro.
Dunque, la sostanziale differenza rispetto all’Italia, dove la destinazione d’uso è a discrezione delle singole città (a Roma solo il 3% della tassa è destinato al settore turistico), negli altri Paesi buona parte dei proventi è reinvestito in attività di marketing, promozione e riqualificazione dei servizi al turista.