È stato un viaggio lungo quasi due secoli. Correva l’anno 1841 quando Thomas Cook, uomo d’affari del Leicestershire, fondò l’omonimo operatore turistico che lo scorso weekend è stato costretto a portare i libri in tribunale nonostante un fatturato da 9 miliardi di sterline, 19 milioni di clienti all’anno e uno staff di 22mila persone sparse in 16 Paesi.
Eppure, i segnali di quanto sarebbe accaduto erano già ben chiari a tutti gli addetti ai lavori, ben prima che si arrivasse al punto di dover rimpatriare con una serie di ponti charter centinaia di migliaia di turisti (si parla di 155.000 britannici coinvolti, su un totale di quasi 600.000 clienti interessati dalla vicenda, stranieri compresi) sparsi nei cinque angoli del pianeta.
Schiacciata da un debito che si aggira intorno ai 1,7 miliardi, Thomas Cook è però finita male nonostante un piano di salvataggio da 1 miliardo di sterline praticamente pronto finanziato in gran parte da Fosun Tourism Group, la big del travel cinese proprietaria tra le altre cose di Club Med.
Già nel 2011 infatti, il Gruppo era andato vicino alla stessa sorte, e solo all’ultimo minuto un accordo con banche e creditori riuscì a posticipare il momento della verità. Stessa cosa due anni più tardi, quando gli azionisti furono chiamati a un nuovo aumento di capitale, ma i nodi erano incominciati a venire al pettine lo scorso maggio, quando i risultati finanziari del primo semestre avevano fatto segnare il punto più basso della storia. Poi, nonostante l’annuncio di un piano con i creditori e le banche, e la disponibilità di Fosun, era arrivato il rifiuto da parte del governo inglese di procedere a un prestito da 150 milioni di sterline.
Adesso, in attesa di vedere cosa ne sarà dell’inchiesta promossa dal premier Boris Johnson sui bonus milionari incassati negli anni dal management, restano da capire le cause che hanno portato alla situazione attuale. Da oltremanica le spiegazioni girano tutte intorno all’incapacità di Thomas Cook di rendere attuale il suo modello di business, surclassato dal successo di Ota e compagnie low cost. Per non parlare dei soldi buttati in merger fallimentari, come quello con My Travel nel 2007, o l’acquisizione di Coop Travel nel 2011; o ancora il fatto che avere di 1.200 agenzie di proprietà su strada nel solo Regno Unito è stata una scelta fuori dal tempo, come pure il fatto di detenere la proprietà di soli 9 hotel sui 3mila inseriti nella programmazione. Risultato: mentre le attività di Thomas Cook airline hanno continuato a rimanere profittevoli, i margini del tour operating si sono progressivamente erosi gettando qualche ombra sull’attività degli altri to in giro per l’Europa.
«La messa in liquidazione di Thomas Cook è per noi una pessima notizia», ha detto ad esempio Gabriele Burgio, presidente di Alpitour Group, secondo cui il crac del colosso britannico avrà un effetto domino sull’intero settore: «Il sistema, cioè banche e hotel, penserà che questi business sono rischiosi. Sarà interessante, ora, vedere cosa farà Tui», ha proseguito il numero del Gruppo torinese sotttolineando come Condor Airlines (che peraltro, per il momento sta continuando a volare senza problemi) sia stata «la spina nel fianco» di Thomas Cook e addebitando parte dei guai al mix di azionisti, banche e obbligazionisti che compongono la proprietà del Gruppo.
Ma quali sono state le cause del disastro? «Sono state fatte sopravvalutazioni o sottovalutazioni di prodotto, questo insieme alla crescita dei prezzi in Spagna e alla svalutazione della sterlina potrebbero essere tra i motivi del fallimento», l’opinione di Nardo Filippetti, presidente Astoi. Ma a preoccupare il presidente dell’associazione dei tour operator italiani è soprattutto il futuro. Il fallimento di Thomas Cook «è un danno enorme per tutta la filiera del turismo organizzato. C’è il rischio che gli albergatori e i fornitori pretendano sempre più garanzie e pagamenti anticipati dai t.o., soprattutto dai più piccoli. Stesso discorso anche per le agenzie di viaggi che si vedranno richiedere i pagamenti anticipati dai tour operator. Le banche, infine, potrebbero essere meno disponibili ad aprire linee di credito».