Viaggio in Sudafrica sulle orme del leone Kalahari
Quando l’aereo atterra a Upintong difficile credere ai propri occhi. Nessuna foresta, ma distese di terra rossa a perdita d’occhio che colorano l’orizzonte. Siamo in Sudafrica, a Norther Cape, due ore di volo da Johannesburg. Un’occhiata alla città che sembra ferma agli anni Ottanta e ci dirigiamo verso la vera meta: il deserto del Kalahari, oltre 930mila chilometri quadrati di sabbia rosso fuoco e steppa, il sesto più grande al mondo, regno incontrastato del vero leone africano. Dimenticatevi però i facili game drive nelle riserve, il leone del Kalahari con la sua criniera nera non è semplice da scovare. Ci abbiamo provato girando in lungo e largo il Kagalagadi Transfrontier Park, il primo che abbraccia tre confini tra Sudafrica, Botswana e Namibia, superando le dune che risplendevano al tramonto, attraversando i letti dei fiumi asciutti, osservando ammirati le aquile sugli alberi o le gazzelle e le antilopi dalle zampe lunghe che scorrazzavano tra i radi cespugli. Niente da fare.
«È un’altra Africa – ci spiega Kobus, la nostra guida locale – Qui il turismo di massa non è ancora arrivato, la gente è più vera e gli animali hanno a disposizione spazi sconfinati». E in effetti qui, dove il wifi è una chimera, è possibile incontrare una delle tribù africane più antiche del mondo, i Khomani San o Bushmen, popolo nomade che ancora oggi si sposta seguendo le orme degli animali da cacciare. Passiamo qualche ora con uno di loro che ci spiega come distinguere le tracce sui sentieri color mattone, per poi farci coccolare da zia Koera, che ci offre dei deliziosi panini con formaggio e una bevanda allo zenzero dalla antica ricetta segreta. Il sole cala sciolto e l’alba sorge veloce. Alle prime ore del nuovo giorno andiamo a scoprire i suricati (meerkat) nel loro santuario. Hanno unghie robuste, olfatto eccellente e scatti fulminei. Guardarli cacciare gli scorpioni e correre tra le dune rosse è un spettacolo. Lasciamo il confine per dirigerci a sud, verso il Parco Nazionale di Augrabies, che ospita le seste cascate più grandi del mondo. Per la tribù Khoi era il “luogo del grande rumore”. Il suono è inconfondibile e piano piano che avanziamo tra le rocce rosse, come in una strana passeggiata su Marte, il fiume Orange si mostra in tutta la sua bellezza. Un salto di oltre 60 metri che finisce in una gola lunga 18 chilometri. Restiamo ipnotizzati dal potere dell’acqua, dall’odore della natura sconfinata, dalle pareti di granito cesellate nei millenni. È come una danza instancabile.
Il viaggio continua verso la piccola cittadina di Riemvasmaak, che significa “stringere la cinghia”. Lo sanno bene gli abitanti che vivono in questa selvaggia regione desertica di montagna e che negli anni ‘60 l’amministrazione dell’Apartheid espulse dalle loro terre. Hanno dovuto attendere il 1994 e il nuovo governo che scelse, qui prima di altrove, di restituire questi luoghi ai figli dei residenti originari. Qui si trovano anche suggestive acque termali che sgorgano in piccole vasche di pietra circondate da pareti rocciose alte 80 metri. Una sosta relax in mezzo alla natura brulla. Risaliamo il sentiero scosceso “danzando” nel van, per arrivare a Kanoneiland, la più grande isola fluviale abitata del mondo. Ci aspetta una degustazione dei vini e dei brandy delle pluripremiate cantine dell’Orange river. Due rossi, due bianchi e un moscato. Uno sguardo al sole infuocato sui vigneti smeraldo. È già ora di tornare a casa.